January 24 2017
di Mariagrazia De Luca
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un allarmante articolo del Telegraph: secondo alcuni linguisti della rinomata Accademia della Crusca, l’Italiano si estinguerà entro il 2300. C’è da ammetterlo, rispetto ai nostri vicini europei, noi tendiamo ad accettare sempre più numerose parole inglesi nel nostro vocabolario. Sarà perchè, con gli “appena” 156 anni dalla nostra unità d’Italia, siamo un paese più giovane rispetto ai cugini europei?
Il “mouse” del computer, per noi italiani, non è mai stato il “topo”, mentre per gli spagnoli è senza alcuna incertezza il “raton”. Il computer è computer, non computadora. “Domani sera ho un meeting,” non una riunione. E questi sono solo alcuni dei tanti casi in cui noi “adottiamo” parole inglesi nel nostro vocabolario senza pensarci troppo su. Siamo meno patriottici o semplicemente più accoglienti ed aperti verso le altre lingue?
L’articolo del Telegraph mi ha spinto a riflettere sul mio modo di parlare italiano dopo oltre quattro anni nella Grande Mela, e, nel fare questo, mi sono consultata anche con amici ed amiche che sono nella mia stessa situazione. Come il nostro italiano ha subito l’influenza dell’americano, e soprattutto, del modo di parlare dei Noo Yowkez (newyorkesi)?
Difficile negarlo, la parola “busy” evita molti fraintendimenti. E’ diretta, e inequivocabile. Busy dà proprio l’idea del movimento, della mancanza di tempo a disposizione, dell’azione frenetica. “A Roma diciamo “incasinati”, a Napoli dicono “inguajati”. Io non dico mai “occupato”, non sono mica un bagno!” afferma il mio amico Gianni.
In italiano diremmo: è bello, è fico (in modo colloquiale), che spettacolo! e via dicendo. “Cool”, per mia esperienza, si può usare in situazioni più o meno formali ma anche informali, e poi diciamoci la verità… suona più cool che altre parole sostitutive.
Ve lo assicuro il 99,9 % degli italiani che vivono a New York e vogliono ordinare una pizza ad un ristorante con consegna a domicilio usano il termine “delivery”, inserendo la parola in una frase tutta in italiano.
Domanda: “Mangiamo una pizza?”
Risposta: “Sì, chiamiamo un delivery”
I GOTTA [da leggere “gara”] oppure GOTCHA [“gaccia”] sono super newyorkesi e io personalmente li uso in continuazione senza neppure accorgermene.
Domanda: “Hai capito quello che intendo?”
Risposta: “Gotcha!”
Spesso le traduzioni letterali del verbo TO MAKE (fare) dall’italiano all’inglese, creano equivoci. Esempio tipico di conversazione:
“Quello che dici fa senso!”
“Fa senso?”
“Oh, no! Volevo dire ha senso!”
In Italia si usa molto allora, cioè, dunque, etc. Qui “I mean…” è inflazionato in qualunque tipo di discorso.
“Non ho capito perché mi guardi in questo modo, I mean… qual è il problema?”
Anche “so” (allora). So? Qual è il problema?
WOW! Really? No way! Yeah!
Non le scrivo ma vi lascio immaginarle. WT…???
Credo che quando ci troviamo a dire parolacce in inglese… la nostra conoscenza della lingua e’ ormai piuttosto intima e viscerale. Quando sono arrabbiata, senza dubbio grido in dialetto romano, la lingua delle emozioni.
No problem. OK. Let’s go! Com’on!
La mia amica Flavia dice sempre: Cammino il cane (I’ll walk the dog) e ti raggiungo. Sarebbe porto fuori il cane, faccio fare una passeggiata al cane…
Almeno per una volta tutti ci siamo cascati nel dire: Ti vedo la prossima settimana! (I’ll see you next week) , sarebbe ci vediamo!
Alcune delle seguenti frasi le ho sentite, altre sono state mie involontarie “invenzioni”:
Ho skippeato la classe (to skip – saltare, mancare)
Ho loggato nel mio profilo di Facebook (to log in – accedere a)
Plugga la spina (to plug- inserire)
La lucetta blinka (to blink – lampeggiare)
Compro delle rose dal fiorista ( fioraio – in inglese fiorist). Ci risiamo: i false friends!
Torno a New York in Febbraio (in February – a Febbraio). Che problema, le preposizioni!
Ho ascoltato un saxofonista bravissimo ! (Sassofonista)
La seguente è una conversazione che ho avuto con il mio coinquilino il mese scorso:
Coinquilino: “Domani alle 11 passa l’esterminator. Aprigli la porta!”
Io: “Chi passa? Non apro la porta a nessuno sterminatore.” (esterminator – chi fa la derattizzazione)
A volte è la pigrizia di pensare… o di fare le scale a piedi?
Prendiamo l’elevator (ascensore) che sono stanca.
Che ci si rivolga a giovani, adulti, donne o uomini, è molto comune salutare tutti con “Hi, guys!” Spontaneamente, a me capita di tradurlo con “ragazzi” quando ci si rivolge ad italiani, che siano settantenni, o bambini, che siano uomini o donne. Qualcuno mi ha fatto notare che può suonare fuori luogo, tanto da sembrare “ironico” nei migliori casi, o offensivo, nei peggiori.
Da bravi italiani che viviamo a New York salutiamo con “hey” invece di “hello”, diciamo “yous guys” (pronunciando una “s” al pronome you), mentre nel resto dell’America dicono You guys. Noi Italiani-Noo Yawkez siamo diretti, sicuri, e parliamo tanto e ad alta voce. Sembra che i newyorkesi mettano una “r” alla fine delle vocali” “good idear”, la –ing non la pronunciano, “going” si dice “goin” e a volte si mangiano pure alcune consonanti “here” (hea). A volte lo facciamo, a volte no.
I Noo Yawkez parlano come camminano – rapidissimo, ma con le vocali allungate. Quando dicono Long Island (Lawn-Guyland) si prendono il loro tempo. Non sempre ce ne rendiamo conto, ma noi a volte facciamo come loro.
Secondo me, sebbene le lingue siano “vive” e continuino a trasformarsi “di bocca in bocca,” soprattutto in questo nostro periodo storico in cui la gente viaggia molto più di ieri in lungo e largo per il pianeta, l’italiano non corre alcun rischio di estinzione. Anzi, il contrario. Ce lo dimostra l’interesse e l’amore che alcuni scrittori, primi tra tutti, Jhumpa Lahiri, hanno dimostrato nei confronti della nostra lingua, arrivando anche a impararla e ad utilizzarla per scrivere romanzi.
Tutto ciò me lo conferma la risposta che Adriana, una mia amica romana-newyorkese, mi ha dato in seguito alla domanda riguardante l’impatto dell’americano sul suo italiano: “Dopo 28 anni a New York, il mio accento romano è rimasto lo stesso!”
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Journalist, Writer, NY Urban Explorer
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